Quando ho iniziato a lavorare su questo film, non avrei mai immaginato le grandi lotte, le gioie o gli incredibili alti e bassi in cui ci saremmo imbattuti.
Il progetto è iniziato quando ho sentito una storia di un adolescente somalo che si era rifiutato di unirsi al gruppo Al-Shabab collegato al movimento Al-Qaeda, e aveva pagato di persona con una pubblica amputazione nello stadio di calcio nazionale. Il lavoro di Michelle Shephard su questa storia ha spronato gli emigrati somali in Canada e i loro sforzi lo hanno aiutato a trovare asilo in Norvegia. Non riuscivo a scrollarmi di dosso la sua storia o l’aver capito che questo era probabilmente allo stesso stadio in cui l’esercito americano arrivò nell’adattamento cinematografico del libro best seller, Black Hawk Down. Lo stadio di Mogadiscio era la precedente dimora dell’amata nazionale di calcio somala. Oggi è il simbolo di una guerra devastante di una nazione da tempo considerata la più ostile e fallimentare al mondo. Volevo fare un film sui ragazzi senza armi, i ragazzi che non hanno conosciuto nient’altro che la guerra, che hanno sogni di pace e che vogliono giocare a calcio nella propria terra.
Nell’estate del 2013, in occasione della FIFA Beach Soccer World Cup a Tahiti ho incontrato il presidente della federazione di calcio somala. Due mesi più tardi, sono andato a Nairobi con il co-produttore/addetto al montaggio, Brian Bellinkoff, per incontrare la squadra nazionale somala mentre gareggiava nel più antico torneo dell’Africa centrale e orientale. Non appena ho iniziato a fare conoscenza con i giocatori, sono rimasto colpito dai loro racconti personali di terrore, storie che sembravano più incubi, mascherate di positività e amore per il loro paese.
La prima sera abbiamo distribuito un questionario. Quella è stata la serata in cui abbiamo incontrato Saadiq. Lui mi ha chiesto se il suo amico poteva parlare con noi della sua storia. Non dimenticherò mai le gocce di sudore sulla fronte di Sa’ad mentre descriveva l’arresto da parte di Al-Shabab per aver ascoltato musica. Dopo la fine della prima partita, sapevamo di voler creare il film su Saadiq e Sa’ad. Al tempo, non potevo prevedere quanto sarebbe stato difficile immortalare i loro racconti. Saadiq viveva in un complicato quartiere di Nairobi, Sa’ad viveva a Mogadiscio al di fuori della “zona verde”, e gli archivi di calcio somali erano andati completamente distrutti nel 2010.
Avevo mandato a Sa’ad un tablet e Saadiq aveva preso in prestito un iPad per produrre diari video. Abbiamo lavorato insieme con collegamenti telefonici interrotti e linee internet irregolari per rimanere in contatto su Facebook, WhatsApp e Skype, prima che mi recassi a Mogadiscio. A fine agosto 2014, Saadiq giunse in America, e all’improvviso potevamo contattarlo illimitatamente su un terreno sicuro. Continuammo la nostra storia con Sa’ad a Mogadiscio e Afgoye, con chiamate che si interrompevano e riprese difficili.
La mia speranza è che il film apra una finestra sulla vita del popolo somalo, sulle lotte che affrontano in un ambiente di terrore e sull’audacia che due ragazzi esibiscono per avere un futuro migliore per se stessi. Sono commosso per la fiducia che hanno riposto in me e nell’opportunità di chiamarli miei amici, la mia famiglia. Alla fine di un lungo viaggio insieme, tutti noi abbiamo acquisito qualcosa che non ci saremmo mai aspettati.
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